Il Genocidio capitalista

Mi avete chiesto - ed è un piacere per me - di parlare a partire dalla frase di Rosa Luxemburg (1917-18): "la scelta è tra il socialismo e la barbarie perché il capitalismo è già diventato instabile e non può offrire altro che la barbarie".

Se leggete Il manifesto del Partito Comunista di Marx e Engels (1848) vi troverete un grande elogio ma anche una critica radicale di ciò che il capitalismo ha rappresentato e rappresenta nella storia umana. Non c'è contraddizione in questa visione. Il capitalismo è stato allo stesso tempo creatore, liberando una forza creatrice terrena di espansione gigantesca, e distruttore.

Probabilmente, quello che Marx aveva in mente è che il ruolo storico del capitalismo è stato per lungo tempo più positivo e costruttivo che distruttivo. Rosa Luxemburg pensava già al tempo della prima guerra mondiale che la dimensione distruttrice fosse molto più forte di quella costruttrice, e che se l'umanità non avesse rapidamente superato la logica capitalista, sarebbe presto entrata in periodo di barbarie. A mio avviso aveva ragione già allora, ma avrebbe ancora più ragione oggi.

La dimensione distruttrice del capitalismo si può riassumere in tre elementi: in primo luogo il capitalismo non è naturale quanto alla produzione e all'organizzazione sociale e alla produzione culturale e ideologica, fondata non sulla considerazione dell'essere umano ma sulla riduzione dell'essere umano a portatore di forza lavoro, trattato come merce. Questa alienazione propria del capitalismo, su cui credo che Marx insista, è stata purtroppo progressivamente ridotta, dal marxismo storico, ad un argomento di discussione filosofica senza un portato politico fondamentale.

Il secondo aspetto di questa dimensione distruttrice del capitalismo è lo sviluppo delle forze produttive, fondato sulla distruzione progressiva delle risorse naturali sulle quali la produzione si fonda. La ragione è che la razionalità del capitalismo - perché si tratta di un sistema razionale - è una razionalità di calcolo finanziario a breve termine o al massimo di qualche anno. Forse per gli investimenti nelle miniere o nel petrolio, per esempio, si ragiona in termini di una quindicina d'anni, ma questo termine non è nulla in rapporto alla lunga storia del pianeta e dell'umanità. Dunque la razionalità del capitalismo è storicamente irrazionale, nel momento in cui si supera l'orizzonte limitato del suo calcolo. Questo, ne sono sicuro, Marx l'ha detto e l'ha scritto nel Capitale, ma è vero che il marxismo storico l'ha dimenticato, e sono i temi che gli ecologisti, senza aver letto Marx, probabilmente, hanno riscoperto.

La terza dimensione distruttrice del capitalismo è che esso è sempre stato imperialista. Si pensi al testo di Lenin "L'imperialismo stato supremo del capitalismo". Da più o meno 20 anni io dico: l'imperialismo è lo stato permanente del capitalismo. Vale a dire che in questa espansione mondiale dalle origini mercantiliste, il capitalismo ha messo in atto delle strutture di disuguaglianza tra i popoli e le ha sempre più approfondite; si può far risalire il capitalismo al 1492, quando Cristoforo Colombo mise piede su questo continente, con il genocidio degli indios seguito dalla schiavitù e la tratta dei negri. La seconda fase dell'imperialismo è quella che inizia dalla rivoluzione industriale e dalla colonizzazione e si protrae per tutto il XIX secolo e la prima metà del XX secolo, che ha portato alla creazione dell'asimmetria tra i centri industriali e le periferie sottomesse condannate a restare agrarie.

Questa pagina della seconda fase è stata già voltata e siamo ora di fronte ad una terza fase dell'imperialismo, che viene chiamata mondializzazione, di fronte alla quale dobbiamo chiederci: che cosa ci riserva? La realizzazione, da più di una ventina d'anni, di questa nuova tappa dell'imperialismo, la mondializzazione neoliberista, coincide con uno stadio del capitalismo che io sento già pervenuto alla senilità. Perché non si tratta soltanto di uno stadio del capitalismo tardivo, come affermano alcuni, ma di uno stadio senile? Prima espressione visibile di questa senilità è la natura della rivoluzione tecnologica e scientifica in corso. Non è certo la prima, ma tutte le rivoluzioni scientifiche e tecnologiche precedenti nella storia moderna, erano fondate sulla trasformazione del lavoro da diretto in indiretto, sul passaggio dalla produzione alla produzione di mezzi di produzione. Vale a dire che l'aumento della produttività esigeva degli investimenti più importanti nella produzione dei mezzi di produzione. In questo senso, era un processo di distruzione costruttiva, cioè distruggeva il modo anteriore di produrre per costruire un modo di produzione più efficiente.

La rivoluzione tecnologica e scientifica contemporanea, invece, è ben diversa: il capitalismo non serve più a niente. Al contrario, è diventato un ostacolo all'aumento della ricchezza possibile grazie a questa rivoluzione scientifica e tecnologica, perché lo sfruttamento del lavoro da parte del capitale, in questa nuova relazione, non ha portato all'espansione del sistema. Passiamo da un sistema la cui caratteristica era l'espansione permanente, a un sistema che va in direzione opposta, che si è contratto. Questa contrazione si traduce in una nuova caratteristica del sistema imperialista.

Il centro capitalista e imperialista, in passato, esportava capitali, per mettere in atto un sistema globale, asimmetrico, che permetteva lo sfruttamento a vantaggio del capitale, ma in espansione permanente. Oggi il centro dei centri, gli Stati Uniti, sono una pompa aspirante che succhia una parte considerevole del surplus generale del mondo, sia dai Paesi ricchi dell'Europa, sia da quelli poveri e da quelli molto poveri.

Ci sono altre manifestazioni della senilità, anche a livello ideologico e culturale: per esempio l'abbandono dei valori universali che costituivano le definizioni storiche del fondamento dell'ideologia borghese illuministica a vantaggio dell'elogio della cosiddetta specificità del comunitarismo, della diversità, cioè della frammentazione dei popoli. Vi è anche la trasformazione della classe dirigente, della stessa borghesia che si occupa dello stato di diritto, del rispetto della legge, ecc. La classe dirigente, la borghesia, diviene sempre più, a livello mondiale, mafiosa, e la mafia capitalista non è solo monopolio del Montenegro o della Russia. È sempre più una caratteristica generale della borghesia, della classe dominante di tutti i Paesi del mondo e soprattutto degli Stati Uniti. Purtroppo nel mondo ci sono molti Paesi-canale per la mafia, ma il numero uno è costituito dagli Stati Uniti. Nei giorni che verranno, Bush sarà accompagnato da banchieri, gente onorevole, che in realtà erano ladri dei fondi pensione che non erano di pakistani immigrati o di altri popoli ma di texani della classe media. Tra questa gente della borghesia e la gente della mafia non c'è molta differenza. Gli aspetti di questa congiuntura di senilità del capitalismo e della messa in opera di questa tappa dell'imperialismo spiegano il perenne ricorso alla guerra, considerata come strategia di un nuovo imperialismo.

Bush ci dice apertamente che siamo entrati in una guerra senza fine, una guerra permanente contro tutti i popoli del Sud, scegliendo ogni volta l'avversario con cui avanzare il progetto di controllo strategico degli Stati Uniti, e l'ultima di queste guerre è quella contro l'Afghanistan, il cui obiettivo, oltre al petrolio, è la frammentazione dell'Asia centrale, dei Paesi come Cina, India, Russia, Iraq, Egitto. Tutto questo significa che ciò che il capitalismo ha da offrire oggi non è davvero altro che barbarie, una barbarie piena di crescente violenza. Se il tempo me lo avesse consentito, avrei incluso tra le vittime di questa barbarie la democrazia, il cui regresso è all'ordine del giorno nell'Occidente stesso con il maccartismo negli Stati Uniti, con i discorsi di Berlusconi che trattano tutti coloro che hanno manifestato a Genova come terroristi, con quello che fa il criminale Sharon in Palestina con la benedizione di Bush eccetera. Non si può più separare la lotta contro il neoliberismo dalla lotta per la pace e contro l'imperialismo.

Prendo in considerazione anche una delle dimensioni genocide del capitalismo contemporaneo, che è la questione contadina. E scelgo questo ambito perché è il più visibile nell'insieme dei movimenti politici e sociali, tra gli altri quelli che sono qui rappresentati a Porto Alegre.

Il capitalismo si è impadronito prima del commercio, poi dell'industria ed è penetrato e ha controllato il mondo agricolo. Oggi ci sono tre miliardi di contadini, di esseri umani che vivono in società rurali, vale a dire la metà dell'umanità. Su questi tre miliardi, qualche decina di milioni soltanto, grazie alla meccanizzazione dell'agricoltura, sono arrivati ad avere una produzione da 10 a 20mila quintali di cereali per persona attiva all'anno. Dei tre miliardi che restano, la metà circa riesce a produrre 1000 quintali per persona attiva, vale a dire un decimo o un ventesimo. E l'altra metà dei tre miliardi produce intorno a 10 quintali. Se si apre l'agricoltura alla razionalità detta del mercato, cioè alla razionalità esclusiva della competizione, che l'Oms chiede, e alla quale tutti i governi del mondo hanno dato il loro assenso, quello che si otterrebbe sarebbe che in qualche decennio, non di più, centinaia di milioni di contadini perderebbero ogni possibilità di continuare a produrre anche nel modo più misero. Poiché è evidente che lo sviluppo industriale, anche quello più straordinariamente meraviglioso che si possa immaginare - che non corrisponde certo alla realtà - non può assorbire queste centinaia di milioni di forza lavoro, questo significa che la sola prospettiva del capitalismo è il genocidio. 

È questo l'aspetto più macroscopico della dimensione distruttrice del capitalismo, arrivato a questo stadio di barbarie.

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