Questo vale anche se lo Stato si presenta come imprenditore generale e proclama in pompa magna che “il popolo” o la “classe operaia” sono divenuti “ipso facto” gli orgogliosi proprietari dell’intero aggregato dell’economia nazionale al servizio della quale devono sottomettersi in modo zelante, o se le imprese in “autogestione” sono condotte come comunità che producono merce e con essa un contesto sociale orientato dell’economia di mercato (anche se il mercato dove è possibile viene provvisto dell’aggettivo “socialista”)- entrambi questi due casi hanno rappresentato solo due tentativi storici fallimentari, di introdurre una consapevolezza riguardo ai bisogni all’interno della società della merce e del lavoro, che è per sua natura un sistema cieco e indifferente ai bisogni.
In questa società le potenze produttive e le condizioni socio-culturali si contrappongono agli uomini nella forma impazzita di una forza esterna dominante. Quando gli individui moderni pensano e agiscono lo fanno sempre sotto le condizioni presupposte dall’impianto costitutivo della società del lavoro e della merce, le cui costrizioni non solo funzionano esternamente ma sono presenti anche all’interno della loro struttura socio-psichica. Ogni “libertà” nella società della merce e ogni “politica” si riduce a decisioni prese all’interno di una dimensione intrinseca a questa “seconda natura”, che in quanto tale non è mai a disposizione e si sottrae ad ogni intervento cosciente. Il concetto di espropriazione denota perciò l’incapacità fondamentale e strutturale dei membri della società di disporre coscientemente di sé stessi e del proprio contesto.
L’uomo della società della merce non può neppure mangiare una carota senza porsi inconsapevolmente in relazione, al di là del suo acquisto, con un gigantesco apparato agro-industriale, logistico e burocratico, fatto di fabbriche di concime, spedizionisti, distributori di sovvenzioni ecc., i quali non sono certo interessati alla carota in quanto tale ma solo e unicamente al guadagno monetario astratto ed aziendale, che in qualche punto di questa processo a catena totalmente assurdo ha casualmente assunto le sembianze di una carota. Il risultato sociale e materiale è inoltre che essi stessi così come fondamenti naturali avvelenati della vita, uomini impoveriti e prodotti agrari eccedenti finiscono nelle discariche. Non solo i processi di lavoro quotidiani in ufficio, in fabbrica e al supermercato vengono diretti dall’astratta razionalità della valorizzazione ma anche i sogni degli uomini sono il frutto della volontà meccanica della società della merce.
Viene da sé che una simile espropriazione totale non potrà mai essere superata attraverso un cambiamento esterno nel potere politico o attraverso il mutamento giuridico del “potere di disporre” (come sembra suggerire la celebre formula della “espropriazione degli espropriatori”) ma solo attraverso un movimento sociale di emancipazione che si appropri in modo totale e cosciente dell’intera sfera sociale. La dissociazione strutturale di politica ed economia come è stata generata dallo scopo a sé stesso scatenato deve essere revocata sin dall’inizio all’interno del movimento sociale stesso; questo non può più essere “politico” nel senso tradizionale (quindi riferito allo Stato). Le risorse materiali non possono essere strappate al sistema tautologico della valorizzazione semplicemente con una cerimonia solenne, ma solo nel corso di una trasformazione fondamentale di tutte le relazioni sociali, economiche e culturali, in cui cambia aspetto anche la faccia materiale del mondo (dall’architettura ai mezzi di trasporto). Una tale determinazione emancipatoria di obbiettivi si deve sviluppare in una situazione sociale che la fa apparire completamente illusoria perché il processo di crisi ha scatenato ancora una volta un nuovo rigurgito del fanatismo del lavoro ed ha rivolto verso l’esterno i lati più oscuri dell’anima della merce.
Il processo di espropriazione permanente non si estingue affatto di per sé nel corso della crisi ma al contrario assume una forma ancora più truce. Che il soggetto del lavoro e della merce viva da sempre isolato nella più totale dipendenza socio-economica, lo sperimenta nel modo più brutale quando la sua forza-lavoro non è più necessaria e nello stesso tempo si esauriscono i trasferimenti sociali. Senza denaro (“lavoro coagulato”) esso è letteralmente una nullità nella società capitalistica; è come se i suoi bisogni non esistessero, perché essi non possono essere espressi come domanda con potere di acquisto. Simultaneamente gli resta precluso l’accesso a risorse materiali inutilizzare (come ad esempio case disabitate), che sono gelosamente custodite dai “servizi di sicurezza” statali e privati, poiché per essi non è previsto alcun utilizzo diverso da quello capitalistico.
Ogni tentativo di arrestare questo processo autoreferenziale di espropriazione assoluta (che si spinge fino allo sterminio di massa per fame nelle più disastrate regioni del globo) attraverso una “politica diversa” immanente per ricadere in uno stato servile del tutto insostenibile all’interno della società del lavoro è fin dal principio destinata al fallimento. Tutto questo non ha più alcun fondamento perché la politica è solo l’astratta forma universale in cui la società produttrice di merci governa le sue inconciliabili contraddizioni, e ora questo strumento perde sempre più la sua limitata capacità di intervento e di regolazione quanto più avanza la crisi della società del lavoro. La sfrenata brutalizzazione della logica capitalistica ed il crollo di tutti gli standard civilizzatori (dalla forma dei rapporti civili all’assistenza medica) può essere arrestata solo grazie da un movimento sociale che non accetti più che la produzione di ricchezza si resa possibile solo nella forma del lavoro produttore di merce. Un’appropriazione emancipatoria in questo senso non si svolge più attraverso il metodo politico-giuridico ma attraverso la rottura categoriale con gli imperativi della “seconda natura” della società della merce.
Elementi per un movimento di appropriazione.
Una prospettiva di emancipazione può consistere solo nell’appropriazione da parte della società, della riproduzione dell’intera esistenza che non è più “mediabile” nel contesto della società del lavoro e la praxis di questa appropriazione avrà la forma di un processo che si protrarrà presumibilmente per molti anni nel corso del quale verrà coinvolto l’insieme dei rapporti sociali, economici e culturali. Non sono solo i rapporti di forza esterni a determinare in modo forzoso un processo di trasformazione così complesso. Gli elementi di una socialità emancipata, estranea alla forma-merce, non si trovano certamente belli che pronti, né possono per così dire venire creati dalla situazione, ma devono essere individuati e sviluppati. Non si tratta semplicemente di una questione tecnico-organizzativa; essa riguarda essenzialmente gli individui che agiscono nella società e la loro struttura psico-sociale. In definitiva i membri di un movimento di superamento ed appropriazione non dovranno essere degli “esseri trascendenti”, ma solo uomini con una soggettività del lavoro e della merce più o meno marcata, cui non sono però deterministicamente consegnati ma che, tuttavia, non possono sfilarsi di dosso come fosse una camicia. Perciò tale processo di appropriazione dovrà essere anche e necessariamente un processo di discussione estesa, di confronto reciproco e di autoriflessione.
Un “movimento” inteso nel senso di tale processo di appropriazione (al contrario di un’azione politica esterna) non ha nulla a che vedere con un “accontentarsi” su piccola scala o di una “economia della miseria” su di una Terra arsa dalle fiamme dell’economia di mercato. Inoltre si differenzia fondamentalmente da una “prospettiva di sussistenza” da civiltà agricola e artigianale o dai progetti di “economia locale” che vengono divulgati in molte forme sotto la pressione della crisi. Certo la produzione locale e l’iniziativa personale con mezzi semplici offre spesso ai molti uomini resi “superflui” dalla crisi l’unica possibilità di garantirsi la sopravvivenza. In parte questo fenomeno va di pari passo con la rinascita e il recente sviluppo di nuove forme di cooperazione ed auto-organizzazione; e perciò si delineano anche qui elementi che sono diretti contro la logica della concorrenza capitalistica. Nonostante ciò queste impostazioni rappresentano solo strategie di ripiegamento e di difesa che restano socialmente isolate e non offrono nessuna prospettiva emancipatoria cui approdare. Perciò non possono sviluppare di per sé nessuna dinamica che trascenda il livello estremamente basso di socializzazione, divisione del lavoro e produttività su cui si muovono. Al contrario sono facilmente strumentalizzabili per strategie di amministrazione della crisi e della miseria ed inoltre disponibili alla costituzione di identità etnicistiche e localistiche.
Le frazioni più spregiudicate nella politica della crisi, nei governi e nelle istituzioni internazionali come la Banca Mondiale o l’ONU non hanno nulla da dire, se i “superflui” dal punto di vista capitalistico si avvicinano in un modo o nell’altro ai margini del capitalismo stesso, per garantire la loro sopravvivenza. In questo modo non solo la rivolta sociale si inasprisce ma si crea la legittimazione a proseguire con una politica di esclusione sociale. Inoltre le eventuali risorse disponibili sono calcolate in quantità così scarsa che le iniziative e i gruppi che se ne occupano sono impegnati per la battaglia per i mezzi di sussistenza quotidiani e non possono essere più mobilizzate energie per attività ulteriori. Per esempio nei loro programmi per “combattere la povertà” già da anni la Banca Mondiale promuove a fine di cosmesi con due noccioline i cosiddetti “aiuti per l’iniziativa personale” e in Messico il governo neoliberale del presidente Salinas ha investito le organizzazioni di base nelle città di un potere decisionale particolarmente ampio in materia di infrastrutture (strade, canalizzazione ecc.) per coinvolgerle in questo modo nell’amministrazione politica della crisi.
E’ completamente falso sostenere che l’unica possibilità sia la partecipazione a questo stato di cose. In questo modo si realizza sia sul piano ideale che su quello teorico la capitolazione di fronte ai compiti indubitabilmente gravosi di un’appropriazione trascendente che abbracci l’intera società mondiale, ancor prima che venga compiuto il primo passo effettivo verso questa meta. Invece un progetto di appropriazione emancipatoria ha il dovere di sviluppare il quadro di riferimento per una prassi di appropriazione, che è sempre stata concepita solo come temporanea e di emergenza, affinché possa consolidarsi e crescere oltre sé stessa. La tensione tra l’obbiettivo di un superamento del lavoro per la società nel suo complesso e le difficoltà di un movimento di appropriazione che vuole cambiare le cose rappresenta comunque un elemento progressivo e non può essere sacrificato in cambio della vuota evocazione di un “totalmente altro” né per l’autonomizzazione di forme di prassi limitate.
La prassi di un movimento di appropriazione non va concepita in modo riduttivo alla stregua di un mero progetto di nicchia ma in termini essenziali come confronto incessante con la prassi capitalistica sui livelli più diversificati. Questo vale prima di tutto per la critica radicale della razionalità economico-aziendale non solo in generale, ma come completo smascheramento del suo carattere irrazionale e distruttivo nei processi materiali concreti come in quelli sociali di “messa in rete” del capitale (come quando galletti surgelati vengono scarrozzati attraverso l’Europa per migliaia di chilometri da camionisti sovraffaticati e sottopagati). La scoperta sistematica delle colossali assurdità nella prassi economico-aziendale capitalistica potrebbe costituire allo stesso tempo una base per indagare le possibilità di un’appropriazione e di una trasformazione del contesto della riproduzione materiale sul piano dei settori produttivi e precisamente dei loro flussi di risorse. Proprio perché non è più possibile assumere semplicemente il complesso produttivo capitalistico nella sua forma attuale, ma grandi parti di esso dovranno essere smantellate o modificate in termini fondamentali, l’appropriazione e la diffusione di questa conoscenza (di per sé una netta rottura con le regole del sistema) è di enorme significato.
Bisognerebbe considerare con spirito critico anche i precedenti tentativi di critica e sovvertimento sul piano della riproduzione concreta, che hanno avuto luogo in un contesto del tutto diverso; per esempio, le analisi del movimento ecologista o il cosiddetto “dibattito sulla riconversione degli armamenti” negli anni’70 e ’80. Con esso viene almeno in parte analizzato in modo minuzioso e competente come l’industria degli armamenti con l’aiuto della competenza settoriale disponibile e attraverso un parziale intervento sul parco-macchinari possa essere riconvertita ad un altro tipo produzione, non militare. Naturalmente non si trattava di una critica radicale all’economia “scatenata”, ma solo, in ultima analisi, di conservare “posti di lavoro” nell’economia di mercato; per lo più in relazione con l’illusione di una “politica economica alternativa” orientata in senso ecologico e comunitario all’interno di un capitalismo in qualche modo riformato. Era del tutto ingenuo pensare che l’industria degli armamenti potesse essere smantellata se solo fossero state sviluppate idee produttive alternative. Perciò il dibattito sulla riconversione scomparve dalla scena pubblica senza lasciare traccia anche in seguito al declino del movimento degli alternativi e della pace e in concomitanza con il processo di adattamento dei verdi. Nonostante ciò queste analisi “ad acta” potrebbero essere utili come strumenti per potere discernere quali conoscenze e quali possibilità materiali potrebbero essere mobilizzate nel contesto di un “dibattito sulla riconversione” da un punto di vista totalmente diverso, contro l’economia aziendale e la produzione di merci.
Il punto di partenza e l’impostazione di un movimento radicale di appropriazione sarà certo molto diverso a seconda del paese o della regione e dei rapporti che vi si sono instaurati. E’ immaginabile e profondamente auspicabile che un movimento di protesta di massa rivolto contro l’amministrazione della crisi da parte dello Stato, a causa dell’insopportabile inasprimento delle condizioni della crisi, si impossessi, secondo una dinamica propria, di grandi settori del tessuto sociale compreso l’apparato di produzione industriale. Dipende dalle diverse condizioni di riferimento, siano esse politiche, sociali od economiche, in cui ha luogo la crisi del capitalismo, quali forme transitorie di appropriazione reale possano concretizzarsi; in primo luogo naturalmente occorre chiedersi se e in quale misura l’atomizzazione e la letargia sociali possano essere eliminate. Nella stessa misura in cui la riproduzione all’interno della società del lavoro va restringendosi sempre più e gli uomini devono ricorrere alle razioni di emergenza, la battaglia per la sussistenza elementare cioè per l’abitazione, il cibo, l’energia ecc. e per l’accesso ai servizi sociali e sanitari può acquistare una forza esplosiva. Chi ritiene tutto ciò un’illusione, deve ricordarsi che in vaste regioni del mondo i circuiti di sussistenza “regolari” legati allo Stato o all’economia di mercato sono in gran parte già crollati. Nei paesi centrali del capitalismo il treno viaggia da tempo verso la stessa destinazione; anche in questi paesi la pressione aumenta, tuttavia essi sono ancora nella condizione di scaricare in qualche modo i costi sulla loro forza-lavoro, perché i salari decrescono stabilmente e allo stesso tempo le prestazioni sociali vengono decurtate. In tali circostanze diventa cruciale un’alternativa: o le catastrofi legate alla sussistenza genereranno una violenta concorrenza tra gli esclusi, che potrà essere condotta da bande razzistiche e da ambigui politici-mediatici nazionalisti – oppure farà la sua comparsa nella società un centro focale di stampo emancipatorio che cominci per esempio con occupazioni di case o “scioperi dell’affitto” svincolando la sfera dell’abitare dalla sfera della produzione di merce e che nel contempo organizzi nei quartieri un’infrastruttura autonoma di servizi medici e sociali, punti di incontro, centri di comunicazione ecc. Ma tali misure sono durevoli solo se, agendo come fondamenta iniziali e teste di ponte, riescono in una certa misura ad originare un processo dinamico che agisca sulla riproduzione sociale nel suo complesso; e una tale dinamica è possibile solo se contemporaneamente sorge un centro focale teorico e sociale che diffonda nella forma di nuova controinformazione le idee della rottura categoriale con il lavoro e con la produzione di merci. Questo implica la necessità sin dal principio di una comunicazione, di una coordinazione e di un appoggio reciproco su scala transnazionale ed interregionale di un movimento di appropriazione che sia in grado di intervenire da una posizione “terza”, di superamento, nei conflitti sociali immanenti e nella contrapposizione tra gli interessi per ciò che riguarda il salario, i sussidi di disoccupazione, l’assistenza sociale ecc.
Non é neppure auspicabile una struttura “economica alternativa” di piccole comunità che producono merci o perfino di singole persone che scambiano “direttamente” il loro tempo di lavoro, come prescritto dalla regressiva ideologia dei “circoli di scambio”. In questo modo non si otterrebbe altro che la riproduzione (o la simulazione in parallelo alla società) delle costrizioni dell’economia di mercato con tutte le loro implicazioni. L’astratta forma di attività “lavoro” non viene superata per questa via ma la sua “autogestione” si limiterebbe solo a mettere in pratica in prima persona le demenziali leggi dell’economia aziendale. Appropriazione reale può sempre e solo significare che le risorse disponibili nei corrispondenti settori di intervento vengono impiegate conformemente all’accordo diretto degli interessati ed il risultato di questo processo viene “esaurito nell’uso” invece di rientrare sul mercato come offerta. Solo in questa prospettiva è possibile intraprendere l’abolizione della sfera autonomizzata dell’economia all’interno di un tessuto sociale consapevolmente organizzato anche in settori separati.
Quando si parla di “accordi diretti” naturalmente non si vuole dire che gigantesche masse umane debbano incontrarsi in continuazione, per discutere e deliberare su ogni faccenda. Bisognerebbe piuttosto escogitare un sistema istituzionale e organizzato per gradi, di intese su tutti i livelli, che divenga per ciascun membro della società parte integrante del suo vivere quotidiano (come lo sono oggi il lavoro astratto, il denaro e la concorrenza). Con l’espressione “diretto” intendo soltanto dire che nessuna forma feticistica autonomizzata può frapporsi tra i membri della società e le condizioni della loro esistenza e che anche i livelli più elevati di organizzazione all’interno della struttura sociale devono restare visibili per tutti (per esempio grazie ai moderni mezzi di comunicazione) facendo a meno dello Stato con i suoi apparati che, analogamente all’economia, è avulso dalla società e la tiene soggiogata nel nome di uno scopo presupposto in sé.
Il compito di sviluppare tali forme ed istituzioni della connessione sociale diretta ed anche la loro composizione si trova di fronte d’altra parte ad un ostacolo, ovvero il fatto che non esiste alcun modello storico e tanto meno attuale da cui trarre ispirazione. Per esempio l’idea seppur effimera dei “consigli” potrebbe offrire (per quanto analizzata criticamente) un punto da cui partire; ma essa è naufragata proprio per il fatto di essere rimasta ancorata alla società del lavoro e di non essere quindi riuscita ad oltrepassare la forma borghese della politica; piuttosto essa era pensata nei termini di un sistema rappresentativo politico di tipo plebiscitario con un controllo meramente esterno sul lavoro astratto e sull’economia della merce rimasti insuperati. Ne è prova il fatto che, per esempio, l’elaborazione teorica dei consigli, così come fu sviluppata da Karl Korsch negli anni ’20, prevedeva una diversificazione tra “consigli di produttori” e “consigli di consumatori”; si dovrebbe così riprodurre in pratica la schizofrenia strutturale del soggetto della merce che da un lato è il venditore della sua stessa forza-lavoro e dall’altro un consumatore di merce. Al contrario al fine di un superamento della forma feticistica resasi autonoma sarebbe da presupporre logicamente che si arrivi ad instaurare l’identità di produttore e di consumatore mediata all’interno delle relazioni sociali,.
In ogni caso sarebbe del tutto insensato fissarsi su di un “modello” determinato di connessione sociale che dovrebbe essere valido ovunque, analogamente alla forma-merce. Bisognerà discutere oltre che dell’assistenza ai bambini nei quartieri (e non necessariamente in tutti i quartieri e regioni allo stesso modo) anche della produzione di travi d’acciaio e dell’organizzazione di un programma radiofonico. Se il superamento del lavoro implica anche che tutte le attività riconosciute come sensate abbiano un valore nel senso della loro logica propria, allora anche i processi decisionali devono tenerne conto. Il futuro oltre il lavoro non è certo un nuovo principio funzionale ed organizzativo, che rimanga astrattamente universalistico, ma uno spazio sociale veramente “aperto” che si contrapponga alla forma-merce e che favorisca lo sviluppo di una molteplicità concreta in tutti i campi dell’esistenza – senza l’impulso costrittivo che deriva dalla costruzione di un’identità modellata sulla concorrenza e dalla paura dell’esclusione.