Povertà e immigrazione: the new business

L’immigrazione non è solo questione di solidarietà e, nell’epoca delle nuova povertà, è un tema che va più approfonditamente decifrato. Gli indicatori rilevati dai da enti o istituti di ricerca, tratteggiano lo sconcertante quadro di progressiva desertificazione del sistema economico nazionale. Si tratta degli esiti scontati cui non potevano che condurci le politiche di rigore ed austerità imposte, ad un ceto di governo succube, dai mortiferi diktat dei burocrati con sede a Bruxelles e degli usurai con sede a Francoforte. Le imprese sono allo stremo: dai trasportatori in crisi di commesse, quale effetto dell’asfissia del mercato locale, al ciclo immobile dell’edilizia. E se l’epicentro della crisi è individuabile al nord, finora opulento ed immune alla depressione economica, la catastrofe vera si registra al Sud dove nei primi mesi dell’anno hanno chiuso 366 imprese al giorno ed il tasso di disoccupazione giovanile è arrivato a sfiorare la soglia del 47%. 

Nel meridione, in sostanza, un giovane su due è disoccupato. La povertà, che così si va generando, investe sia le famiglie dei lavoratori dipendenti sia quelle dei lavoratori autonomi. Le severe deprivazioni, come le definisce l’Istat, colpiscono ormai il 13,7% dei primi ed il 12% dei secondi. È una povertà nuova che, per effetto della insostenibile pressione fiscale e della riduzione di ogni forma di remunerazione del lavoro, colpisce non soltanto coloro che non lavorano ma anche coloro che un lavoro o un’impresa ancora ce l’hanno. La conseguente contrazione della domanda dei beni di consumo si è abbattuta sul commercio al minuto che si va lasciando alle spalle negozi chiusi ed intere strade fantasma. Innanzi a tale scenario, privo di concreti segnali di ripresa, non è facile comprendere il senso autentico di quella retorica della solidarietà che, proclamata da ogni pulpito, finisce per incentivare imponenti flussi di immigrazione verso il nostro paese. 

Restano indecifrabili, infatti, le ragioni di una diffusamente celebrata mistica dell’accoglienza fino a quando non si scorge anche il business che si cela dietro al tanto rivendicato “sostegno alle politiche dell’immigrazione”. È mera illusione ottica quella che induce a interpretare i fenomeni migratori alla stregua di una ineluttabile catastrofe naturale. Va riconosciuto che l’immigrazione è anche un fenomeno indotto. Chi la incentiva non si cura degli effetti e delle vittime che si immolano alla sua propaganda. Gli affari, si sa, sono affari. E l’immigrazione è un lucroso business non solo per le mafie che reinvestono illeciti profitti rastrellando tuguri fatiscenti per stiparvi, a canoni da usura, masse di infelici. L’immigrazione, infatti, è anche innanzitutto un affare per il turbocapitalismo che, negli interminabili flussi di disperati, intravede la crescita dell’offerta di manodopera disponibile a lavorare in cambio di salari più bassi dei livelli praticati nei territori di approdo. Infine vi è l’affare, da pochi percepito, delle attività legate all’accoglienza. C'è un acronimo che sta per centri di identificazione ed espulsione. Si tratta di strutture gestite da cooperative sociali, per lo più legate ai padrinati politici che dirottano verso questo centri risorse finanziarie attingendole dalla casse dello stato. 

Diciotto milioni seicentomila euro per il 2011. Altrettanti si stima per il 2012 e solo per la gestione dei servizi interni. Altri 26 milioni di euro impiegati per la sorveglianza. Quasi cento milioni di euro, in cinque anni, sono stati spesi solo per i rimpatri. Quando si parla di politiche dell’immigrazione bisogna tenere presente che stiamo discutendo di una macchina mangia soldi fatta di imponenti interessi economici a beneficio di raffinati professionisti dell’accoglienza ed a carico di contribuenti per la gran parte ignari della effettive ricadute di bilancio del fenomeno. Il prolungamento della detenzione all’interno dei centri, dagli originari 60 agli attuali 180 giorni, è stato salutato ovviamente come manna dal cielo dalle cooperative e dai consorzi che negli anni si sono aggiudicati gli appalti. È stato di recente calcolato che il costo pro capite di ogni immigrato poteva andare dai 75 euro al giorno di Modena ai 38 euro di Trapani. Considerato il vergognoso trattamento riservato effettivamente a questi infelici, si possono immaginare i profitti ricavabili dall’aggiudicazione di tali appalti. Si pensi, per fare un esempio, quanto costa al buon padre di famiglia assicurare ad un figlio i bisogni essenziali. 75 euro al giorno, equivalgono a 2.250 mensili elargiti per ogni immigrato ospite dei centri. 

Se la matematica non è un'opinione, queste cifre danno la giusta dimensione al fenomeno e, soprattutto, un senso alla retorica della solidarietà che, praticata in un paese che non è più in grado di offrire lavoro e garantire un futuro ai suoi figli, non è soltanto un fatto di cattivo gusto ma una vicenda di natura criminale.

di Carmine Ippolito 
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