La proposta di una tassazione delle transazioni sui mercati dei cambi è stata avanzata all'inizio degli anni 70 dal premio Nobel per l'economia James Tobin. Il suo obiettivo è di immettere "granelli di sabbia" nell'ingranaggio dei flussi speculativi, favorendo gli investimenti produttivi a lungo termine. Idee di questo tipo erano allora correnti; fino agli anni 80, la maggior parte dei paesi ricchi esercitava un certo controllo sui flussi dei capitali. Alcuni stati, come ad esempio il Cile, lo fanno tuttora.
La tassa Tobin è all'ordine del giorno da quasi un quarto di secolo, ma le grandi istituzioni finanziarie non ne vogliono assolutamente sentir parlare. E non a caso, dato che approfittano enormemente dell'attuale situazione, sia pure al prezzo di un rallentamento dell'economia reale e di crisi di notevole portata. Anche i settori manifatturieri e industriali, che pure dovrebbero esserne i potenziali beneficiari, sono in genere contrari a una misura del genere; probabilmente perché considerano vantaggiosi gli effetti delle misure di liberalizzazione finanziaria sulle politiche sociali, e la forte pressione che esercitano sul costo del lavoro. Non desta quindi sorpresa il fatto che un importante libro sulla tassa Tobin, sia stato boicottato dalla stampa in seguito alle pressioni degli organismi internazionali e degli ambienti finanziari, soprattutto americani.
L'occultamento di ogni possibile soluzione alternativa all'attuale politica appare tanto più necessario, in quanto l'opinione pubblica ha manifestato in più occasioni una netta opposizione alle politiche di libero scambio e di liberalizzazione finanziaria. Nel 1998 l'amministrazione Clinton ha dovuto ad esempio rinunciare a ottenere l'accordo del Congresso per l'introduzione della procedura "fast track" (corsia veloce) per negoziare una zona di libero scambio interamericano. Le pressioni popolari sugli eletti, in particolare da parte dei sindacati, hanno costretto il presidente a riconoscere l'impossibilità di aggregare una maggioranza su quel progetto.
Nello stesso periodo, si stava preparando il terreno per l'accordo multilaterale sugli investimenti (AMI), che veniva negoziato in sordina fin dal maggio 1995 in seno all'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE). Ma la mobilitazione sociale, in particolare in Canada e in Francia, e la decisione, presa dal governo di Lionel Jospin (allora primo ministro francese), di ritirarsi dal negoziato, hanno finito per mandare a monte il progetto.
Ma la partita è tutt'altro che chiusa; le trattative riprenderanno, in un modo o nell'altro, innanzitutto in seno all'Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), e saranno condotte con la maggior discrezione possibile. Un'idea avanzata dai promotori della liberalizzazione finanziaria è quella di incaricare il Fondo Monetario Internazionale (FMI) di imporre di fatto agli stati che ricevono il suo "aiuto" le regole previste dal progetto AMI. Il "vantaggio" di una soluzione del genere è che l'FMI funziona al riparo dagli sguardi, e non ha conti da rendere a nessuno.
Il rifiuto della Francia aveva dato coraggio ad altri paesi per rivedere la propria posizione e messo un termine ai negoziati sull'AMI, ma nei primi anni del 2000, il governo di Jospin era tornato ad un atteggiamento più conciliante rispetto ai processi di mondializzazione e dopo anni di negoziati che i governi hanno tenuto segreti, un vasto movimento d'intellettuali, d'artisti e di associazioni cittadine come l' ATTAC hanno costretto i responsabili politici a svelare l'esistenza di negoziati sull'AMI e ad aprire un dibattito pubblico.
Nel novembre del 2000, al vertice europeo di Biarritz, il governo francese aveva dato il suo accordo per la modifica dell'articolo 133 del Trattato di Amsterdam, per permettere alla Commissione Europea di poter trattare i futuri accordi multilaterali al posto degli Stati. I media, che per la maggior parte appartengono a delle multinazionali favorevoli all'AMI, sono stati straordinariamente discreti sull'esistenza e il contenuto di questo trattato, malgrado il suo raggio storico. Il principio centrale dell'AMI è di creare un insieme di nuovi diritti per le multinazionali, a scapito degli Stati e delle popolazioni, senza nessuna obbligazione di contropartita. Le disposizioni dell'AMI permetterebbero ad una multinazionale, tra l'altro, di fare causa ad uno Stato (davanti ad una nuova giurisdizione internazionale prevista dal trattato) se i regolamenti di questo Stato creassero delle differenze tra investitori nazionali ed esteri, oppure se si creassero condizioni di concorrenza sleale.
Queste disposizioni possono sembrare futili, ma il loro raggio raggiunge quasi tutti i campi nei quali interviene lo Stato. Ad esempio, le leggi nel campo della protezione ambientale potrebbero essere annullate se si rivelassero essere più severe che in altri Stati dove è stabilito l'investitore. Oppure, le sovvenzioni allegate dallo Stato ai settori della cultura e dell'educazione pubblica, vengono considerate come condizioni di concorrenza sleale rispetto ad altri Stati dove questi settori non vengono sovvenzionati dallo Stato.
Con l'AMI, gli "investitori" potranno esigere di annullare le leggi nazionali, ed ottenere dagli Stati un risarcimento finanziario dei danni subiti che in pratica significa l'abdicazione degli Stati a favore delle multinazionali, e la fine di tutti i poteri di un governo eletto.